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http://www.papilleclandestine.it/2013/12/15/giornata-nazionale-nocciole-tonde-gentili-castagnole-lanze/
Le nocciole di zia Maria
15 dic 2013 di Alessandro Ricci
Roma, Milano, Torino, Napoli, Palermo e i 240 paesi “corilicoli” dello Stivale: oggi, domenica 15 dicembre, sono il palcoscenico della seconda “Giornata Nazionale” dedicata alla Nocciola Italiana. Un’iniziativa ideata dall’Associazione Nazionale Città della Nocciola per promuovere la corretta conoscenza di questo alimento, così importante da un punto di vista nutrizionale, culturale e oggi anche turistico. Degustazioni, laboratori sensoriali, escursioni guidate, menu a tema nei ristoranti e in tanti altri luoghi si alterneranno in ogni angolo del Paese per una vera e propria festa della nocciola.
Zia Maria era un personaggio.
Vedova da oltre quindici anni, alle soglie degli 80 anni, viveva da sola a Castagnole delle Lanze, l’ultimo paese del Monferrato prima della Langhe, in un grande casolare isolato e scalcinato, senza riscaldamento (usava il fratino, per scaldare il letto d’inverno, e sì che il freddo punge intenso nei mesi più freddi), continuando impassibile la sua vita da contadina, senza il minimo lusso, se non quello delle colline attorno e il Monviso là davanti, netto all’orizzonte nel limpido invernale, appena a destra la sagoma di Neive.
Avevo nove, dieci anni. Mio fratello tre di meno. La seconda metà di agosto, con nonna Teresa, lo passavamo da zia Maria, che era sua sorella, e zia della mamma.
Ricordo l’odore, inesprimibile, del suo frigo, praticamente vuoto, causato da robiole stagionatissime, di altre epoche. La sua idiosincrasia per la televisione, “perché l’elettricità costa”. Le sue mani contadine, scure di terra nelle nervature della pelle, che raccoglievano l’uva gnenga dal bersò dietro casa. La sua impronta dura, selvatica, scontrosa, che si ammorbidiva in un sorriso largo nei giorni della festa di San Bartolomeo, la grande festa di Castagnole, alla fine di agosto.
Ogni anno, nell’aia davanti casa, per la festa arrivavano le sorelle ancora vive (di sette, nonna Teresa, zia Esterina, zia Carlotta), il fratello Renato, e poi noi (mamma, papà, mio fratello, mia sorella), e gli altri figli e cugini, e qualche amico della contrada.
Era una grande festa, sì, che mia zia celebrava con senso arcaico di condivisione, attaccamento, appartenenza. E con l’insalata russa, gli agnolotti del plin, il brasato, l’uva moscato, che è la più buona del mondo, titillata acino ad acino mentre giocavamo a pallone, nell’erba e nell’afa buona.
Se una festa cade bene, cade bene. La festa di San Bartolomeo aveva il dono di arrivare nel momento giusto dell’anno, nell’autunno dell’estate, alla vigilia della vendemmia. Tutt’attorno all’aria di festa, c’erano filari accuditi per un anno carichi di moscato, ceste pronte alle vendemmie, forbici, squadre di raccolta organizzate, tini e torchi lavati di fresco.
E poi c’erano loro. Le tonde gentile di Langa. Le nocciole. Appena cadute, sotto i noccioleti tenuti a biliardo, o già raccolte e lasciate ad asciugare al sole nelle aie. Zia Maria aveva noccioli tutto attorno alla casa, davanti, didietro, di fianco. Le vendeva alla Ferrero.
Zia Maria, ogni anno, ci regalava diecimila lire a testa, a me e mio fratello, da spendere alle giostre arrivate per la festa nella piazza grande. Era l’unico regalo dell’anno, e non completamente disinteressato: per meritarcelo, dovevamo raccogliere almeno un secchio a testa di nocciole.
E state attenti a non raccogliere quelle scure dell’anno prima! – ci diceva.
Non è poi così noioso, raccogliere le nocciole. Ma un secchio è lungo da riempire, una a una. Noi ci mettevamo d’impegno. Ma durava poco. E finiva sempre alla stessa maniera. Di nascosto, prima uno, poi l’altro, scappavamo sotto il portico, dove c’era il sacco di juta con le nocciole già raccolte. Riempivamo così il nostro secchiello, velocemente. E poi ce ne stavamo sotto il fresco dei noccioli, con due mattoni tra le mani, a schiacciare e mangiare le nocciole appena cadute, ancora un poco verdi, ma così buone.
Quando ci sembrava trascorso il giusto, tornavamo nell’aia. Zia Maria ci guardava, ispezionava con le mani il contenuto del secchiello. Non sembrava mai troppo convinta del nostro lavoro, ma mai ci fece capire che sapeva del nostro tranello. Ci regalava la banconota azzurra con l’effigie di Alessandro Volta e la pila, che avremmo speso la sera stessa, scendendo in festa. Ma prima, sgattaiolavamo ancora a prendere dalla credenza un bicchiere e lo riempivamo di zucchero fino a metà. Poi, sempre di nascosto, tornavamo dal sacco di juta (ricordo indelebile il suo profumo polveroso, che si ritrova a volte in certi vini biologici), e lo colmavamo con le nocciole, dopo averle sbucciate sulle pietre. Dopo aver mescolato bene, consumavamo quella merenda sui gradini che scendevamo in cantina, facendo attenzione che nessuno ci scoprisse. Era il nostro anticipo di festa.